La maschera nuda della follia
Immaginare una logica “che sia fuori dal pensare comune” significa apportare radicali cambiamenti sul sostrato che ci appartiene; così, per scrivere e attuare del “nuovo” in teatro occorre avere radicato il sostrato e rivoluzionarlo, usare l’aratro dell’esperienza e del palcoscenico per scrivere e dirigere il “nuovo”.
Come i commediografi latini armati di imitatio aemulatio variatio la compagnia de “La maschera nuda della follia”, appresa la lezione pirandelliana partendo dall’Enrico IV, ruminata e digerita, ha intrapreso il percorso per un’opera indipendente.
Lo studio sul testo e per il testo ha richiesto mesi, così come i colloqui con la macchina artistica delle musiche e delle immagini, che hanno sperimentato nuove vie di interpretazione.
Sergio Sorrentino infatti ha saputo coniugare il tema classico della “follia” con il metro della samba e ha saputo trasmettere il disarticolato mondo delle suggestioni sonore grazie allo “sgranarsi” della chitarra elettrica e della tromba, ponendo come meta il risultato complessivo e non solo la mera presenza delle note; Gian Luca Marino, dotato di rara tecnica fotografica, è riuscito a mettere in immagini i pensieri della regia, la quale non ha pensato all’uso dei video come alternativa tecnica di un effetto, bensì come sottofondo di onde elettromagnetiche, che, invece di essere percepite con l’udito come la musica, vengono percepite con il senso della vista.
La recitazione, lungi dall’imitare gli standard della recitazione “pirandelliana”, è stata incentrata sull’efficacia linguistica, azione non semplice specie nel ruolo di Federico/Enrico IV, né di immediata risoluzione, ma che apre la strada a quel “nuovo” che in teatro si cerca sempre: il linguaggio del teatro nella contemporaneità, lavoro che i “classici” della drammaturgia hanno dovuto affrontare. La molteplicità semantica, che verte ad una continua “reductio ad unum”, consente di passare dalla leggerezza di scene divertenti alla tragedia greca, dalla sofisticated comedy al dramma esistenziale, fino al lessico familiare.
Il rapporto con “l’archetipo” diventa solo di puro riferimento per lasciare spazio alla vittoria del bello e buono/kalokagathia nella lotta contro il brutto/kakòs per lasciarsi andare alla benefica narcosi della catarsi.
Antonio Luca Cuddè